VIII. Metapsicologia

pp. 317-338


Si ricorderà che Freud usò per la prima volta il termine «metapsicologia» nel 18961 per designare ogni descrizione dei processi psichici che muovesse da un punto di vista dinamico, topografico ed economico. Quando ebbe scritto i suoi importanti saggi di metapsicologia, nella primavera del 1915," egli si accorse di aver scritto il lavoro della sua vita e capì che qualunque ulteriore contributo egli avesse potuto dare, sarebbe sempre rimasto su un piano complementare e subordinato, ed i suoi seguaci furono senz'altro dello stesso avviso. Se la sua opera si fosse arrestata a quel punto noi saremmo venuti in possesso di una visione definitiva della psicoanalisi in quella che potremmo definire la forma classica di tale dottrina, e non sarebbe stato facile predire un suo futuro sviluppo nelle mani dei successori di Freud. Non vi era la minima ragione di aspettarsi che entro pochi anni Freud avrebbe apportato innovazioni cosi rivoluzionarie da sconvolgere sia la teoria che la pratica psicoanalitica.

Nei successivi tre o quattro oscuri anni di guerra la mente di Freud rimase in un relativo letargo : le miserie della vita quotidiana bastavano a tenerla occupata. Tra il 1919 e il 1921 cominciarono a spuntare le nuove idee. I temi principali erano due, e possono essere così definiti : l'importanza di una tendenza biologica dell'organismo a ripristinare le condizioni di vita precedenti e la struttura tripartita dei processi psichici. Le riflessioni sulle componenti non libidiche dell'Io servono da legame fra questi due temi. Il primo, che precedette anche in ordine di tempo, era di ordine esplicitamente speculativo, mentre il secondo si basava più direttamente sulla ricerca clinica. Entrambi, oltre al valore scientifico intrinseco, presentano un interesse speciale ai fini dello studio della personalità di Freud.

Coazione a ripetere e istinto di morte

Le circostanze nelle quali Freud scrisse il suo affascinante Al di là del principio del piacere nel 1919-20 sono state già descritte.4 Si tratta di un libro notevole sotto molti aspetti. Innanzi tutto Freud, nell'affrontare problemi fondamentali come quelli dell'origine della vita e della natura della morte, si inoltra in speculazioni così ardite da restare senza precedenti : nulla di ciò che aveva scritto fino allora poteva reggere il confronto. In secondo luogo è oltremodo chiaro che nello scrivere quell'opera Freud non ascoltò nessun altro al di fuori di se stesso : egli la scrisse nel tentativo di chiarire a se stesso alcuni problemi che lo avevano a lungo imbarazzato. Lo stile è piuttosto discorsivo, fatto quasi di libere associazioni, e quindi vi è, qua e là, qualche vuoto nella continuità del ragionamento. Immerso nel suo pensiero, Freud rivive molte idee che risalivano al suo periodo neurologico e anche prima, per poi passare con agilità da esse alle impressioni raccolte nei suoi anni di esperienza analitica. Un simile modo di scrivere indica di per sé che le idee esposte devono sgorgare da una fonte personale e profonda, ciò che aumenta notevolmente il loro interesse. Un altro motivo di considerazione è dato dal fatto che il libro in questione fu l'unico, tra tutti quelli di Freud, ad avere scarso successo tra i suoi seguaci. Infatti si può osservare che, della cinquantina di lavori che sono stati dedicati all'argomento, circa la metà difesero le teorie di Freud nella prima decade, circa un terzo fece altrettanto per la seconda, ma nemmeno uno per gli ultimi dieci anni. Qualunque possa essere il giudizio definitivo sulla stupefacente teoria espressa da Freud con quell'opera, non c'è però nulla da eccepire sul peso e la stringatezza dei pensieri che essa contiene. Molte delle idee esposte - quella della ricerca della perfezione, tanto per citarne una -fungeranno da stimolo per altri pensatori ancora per molti anni a venire.

Il problema dal quale le riflessioni di Freud prendono le mosse è quello del dualismo della psiche. In tutto il suo lavoro psicologico, a conclusione di un'esperienza ormai vasta, egli si era attenuto alla concezione di un profondo conflitto interno della mente, e quindi si era ovviamente dedicato allo studio della natura delle forze che lo generano. Egli non pensò mai di adottare una concezione monistica, come fece Jung e più tardi Fenichel, né contemplò mai la visione pluralistica degli istinti, propria di molti biologi, ma restò sempre un ostinato dualista, e potremmo domandarci perché.  Il concetto di conflitto non è di per sé sufficiente a darne spiegazione, perché non è affatto restringibile a due sole forze in contrasto, perciò bisogna pensare che il dualismo freudiano sia nato da qualche parte profonda della mente del suo autore, forse come risultato del suo complesso di Edipo o dell'opposizione fra i lati maschili e quelli femminili della sua natura.

Per circa vent'anni dall'inizio della sua attività Freud si era accontentato di riconoscere, negli opposti termini del conflitto psichico, da una parte gli impulsi erotici, derivati da quello che i biologi chiamano istinto di riproduzione, e dall'altra gli impulsi dell'Io, comprendenti soprattutto l'istinto di conservazione. Questa concezione fu fortemente scossa nel 1914, quando Freud fu indotto a postulare il concetto di narcisismo ed a ritenere che l'istinto di conservazione dovesse essere incluso in questo amore per se stessi. Stando così le cose, l'unico conflitto ammissibile a quell'epoca era quello tra impulsi narcisistici e impulsi alloerotici, cioè tra due forme di istinto sessuale. Tutto ciò era profondamente insoddisfacente perché Freud era stato sempre sicuro che nella psiche, e presumibilmente nell'Io, esistesse, oltre a quello sessuale, un altro istinto che aveva provvisoriamente definito «interesse per se stessi». Nell'anno seguente, che era il 1915, accaddero però due importanti avvenimenti. Ne Gli istinti e le loro vicissitudini, un saggio che fa parte della straordinaria produzione di quell'anno, Freud giunse alla conclusione che l'odio, che avrebbe in seguito chiamato istinto aggressivo, era distinto dall'istinto sessuale ed era uno dei costituenti originari dell'Io.5 Era così nato il concetto di una parte non libidica dell'Io che avrebbe potuto essere contrapposta agli istinti sessuali. L'altro avvenimento fu la ripetuta osservazione, nel suo primo nipotino, di un gioco nel quale il bambino ripeteva continuamente azioni che si riferivano all'assenza di sua madre e che potevano avere per lui soltanto un significato spiacevole. Si può anche precisare la data di tale osservazione : essa risale al settembre 1915, quando Freud trascorse qualche settimana ad Amburgo in casa di sua figlia. Sembra che questo episodio lo avesse profondamente colpito, tanto che quattro anni più tardi egli ne fece il punto di partenza per le sue argomentazioni in Al di là del principio del piacere.

Durante i successivi anni di guerra, che ho dianzi ravvicinato a un letargo, Freud - a quanto pare - relegò questa catena di pensieri in qualche parte riposta della sua mente, ma è certo che non li dimenticò mai completamente. Molto prima che ne emergessero idee creative, le associazioni si stavano formando nel suo inconscio. All'inizio del 1919 egli si disse ancora sprovvisto di nuove idee, ma in marzo il fermento cominciò finalmente a stimolarlo all'azione. Stavolta, però, la sua penna non aveva la consueta facilità, tanto che, arrivato a un certo punto, egli rimandò il lavoro alle vacanze estive. Anche allora, tuttavia, le idee si rifiutarono di fluire scorrevolmente e la ricerca dell'espressione si dimostrò particolarmente difficile. Fu solo nella successiva primavera che Freud riuscì a mettere i suoi pensieri sulla carta, ma in uno stile ben lontano dalla sua abituale lucidità ed immediatezza. Leggendo il libro si percepisce quasi la difficoltà con la quale il suo lavoro intellettuale si aprì la strada nella sua mente.

Egli comincia con il riaffermare l'importanza del principio del piacere-sofferenza, che considera conforme al principio della stabilità sostenuto da Fechner. Secondo questo principio la principale funzione dell'attività psichica consiste nel ridurre al minimo livello possibile le tensioni indotte sia dagli istinti che dalle stimolazioni esterne. Freud si serve di un termine suggerito da Barbara Low, «principio del nirvana», riferendosi a entrambi i tipi di stimoli, sia che lo scopo sia quello di abolire l'eccitazione, sia semplicemente quello di diminuirla.0 Il termine oggi comunemente usato, con un significato molto analogo, è quello di «omeostasi» di Cannon che, tra parentesi, è quasi equivalente alla «isonomia» di Alcmeone di Crotone. Il concetto nel suo insieme è una vera e propria anticipazione della moderna scienza della cibernetica. È interessante notare che Fechner fu l'unico psicologo dal quale Freud abbia mai ripreso qualche idea, e vi è motivo di pensare che lo fece su consiglio di Breuer. Il principio in questione sembrava accordarsi con l'esperienza di Freud circa l'abreazione, ed anche con la sua teoria della soddisfazione dei desideri secondo la quale gli impulsi cercano soddisfazione e poi tornano ad uno stato di quiete. Freud però si era venuto accorgendo che la correlazione tra aumento di eccitazione e sofferenza da un lato, e diminuzione e piacere dall'altra, non poteva essere così stretta come aveva creduto fino a quel momento : il piacere derivante dall'aumento della tensione sessuale sembrava infatti in flagrante contraddizione con quanto sopra, così come lo era l'esperienza dei cosiddetti «sogni di guerra». Dovevano dunque esservi altri fattori oltre all'aumento di tensione, forse qualche rapporto con il tempo o con il ritmo. Quattro anni dopo Freud chiarì tutti questi concetti affermando che la stabilità, o principio di costanza, si riferiva esclusivamente alle variazioni quantitative, mentre il principio del piacere-sofferenza solo a quelle qualitative.

Freud fa quindi il racconto del gioco del bambino al quale abbiamo fatto allusione poco più sopra, e si sofferma sulla passione che i bambini dimostrano per la ripetizione dei giochi, racconti, ecc., indipendentemente dal fatto che siano piacevoli o no. È questa osservazione che lo aveva portato a chiedersi se non vi fosse qualche altro principio indipendente da quello del piacere-sofferenza, ed a concludere che ne esiste effettivamente un altro al quale dà il nome di «coazione a ripetere». Gli viene allora alla mente tutta una serie di fenomeni apparentemente analoghi che sembrano in accordo con questa concezione : i sogni ricorrenti dei nevrotici di guerra, nei quali il trauma originario è continuamente rinnovato; la tendenza al comportamento autolesivo che si può mettere in evidenza nel corso della vita di certe persone; la tendenza di molti pazienti a rivivere continuamente nel corso dell'analisi esperienze spiacevoli vissute nell'infanzia, ecc. Non è difficile, in tutti questi casi, scoprire qualche altro motivo per queste ripetizioni, ed infatti Freud ne suggerisce un certo numero. Così, per esempio, nel caso dei sogni di guerra, in cui lo chock traumatico ha superato le barriere difensive sorprendendo l'individuo impreparato, egli nota che la ripetizione dell'evento nel sonno, accompagnata da intensa angoscia, può rappresentare un tentativo di sopperire all'assenza di quel «segnale d'allarme» rappresentato dall'ansia, la cui assenza era stata responsabile dell'effetto traumatico dello chock. Freud pensa che i sogni di questo genere siano un'eccezione alla sua teoria del sogno come soddisfazione dei desideri, tuttavia si può osservare che nessuno di loro si limita strettamente all'accurata riproduzione dell'esperienza traumatica : vi si trova sempre qualche particolare insignificante che richiederebbe di essere analizzato, e che può ben testimoniare la tendenza a modificare il ricordo traumatizzante nel senso della soddisfazione di un desiderio, anche se il paziente si sveglia terrorizzato prima che quest'ultima possa verificarsi. Sarebbe certo possibile riportare tutti gli esempi surriportati a una generica tendenza all'abreazione, ma Freud va alla ricerca di un principio più generale che possa spiegarli tutti. Torna quindi alla distinzione, che aveva formulato insieme a Breuer, tra energia libera ed energia legata,8 e che aveva assunto come una delle basi della sua psicologia, e la mette in rapporto con il tentativo di «dominare» o «legare» le esperienze spiacevoli, che secondo lui costituisce il motivo delle ripetizioni in questione.

Tale concezione non è del tutto nuova per Freud, sebbene sia la prima volta che la espone. Infatti nel  1924,  nel preparare la seconda edizione degli Studi sull'isterismo, egli raccontò di aver avuto notizie di una sua vecchia paziente, Emmy von N., da un medico incontrato ad un congresso dei Naturforscher che, tra parentesi, doveva essersi svolto nel 1894, unico anno nel quale poteva aver partecipato ad un congresso medico.9 Nell'ap-prendere che la paziente aveva continuato a ripetere lo stesso comportamento, Freud era rimasto così colpito da questa tendenza alla perseverazione, spesso evidente nelle nevrosi, che l'aveva impressa nella sua mente e tren-t'anni dopo l'aveva definita «un tipico caso di coazione a ripetere». Vi è poi un interessante passo della prima edizione dei Tre saggi sulla teoria della sessualità, del 1905, nel quale, riferendosi alle fissazioni ed alla mancanza di plasticità tipici delle nevrosi, aveva scritto che le impressioni sessuali precoci «tendono alla ripetizione in maniera compulsiva». Ora Freud ha trovato il secondo principio che stava cercando : è questa necessità di legare o dominare le impressioni originarie, di trasformarle da «sistema primario» in «sistema secondario», per usare la sua caratteristica espressione, e questo principio gli sembra più fondamentale ancora del principio del piacere perché ne costituisce la necessaria premessa.

Si può qui citare un interessante pensiero che Freud espresse casualmente a questo riguardo e che vale la pena di riportare testualmente : «È un fatto ben noto, sebbene la teoria della libido non l'abbia ancora sufficientemente utilizzato, che i gravi disturbi della distribuzione della libido che si verificano nella melancolia vengono provvisoriamente risolti da una malattia organica intercorrente, e che perfino una condizione di avanzata demenza precoce è suscettibile di temporanee remissioni nelle stesse circostanze.»13 Questo pensiero può essere stato influenzato anche dagli esperimenti che Wagner-Jauregg stava svolgendo, press'a poco in quel periodo, sull'infezione malarica a scopo terapeutico, dei quali Freud doveva essere certamente a conoscenza. Si ricorderà che furono proprio tali tentativi di interferire attivamente con l'economia psichica a portare, con il tempo, alla terapia convulsivante con insulina e, più tardi, all'attuale moda dell'elet-trochocterapia.

A questo punto tre idee, secondo Freud di uguale importanza, si affacciarono insieme alla sua mente. I processi primari che debbono essere legati prima che il principio del piacere possa entrare in azione derivano da stimolazioni interne e perciò appartengono agli istinti. La tendenza alla ripetizione è pure, in modo evidente, di natura istintuale, ed è più elementare del  principio del piacere, dal  quale si  differenzia per il  suo carattere «demoniaco». Il primo si trasforma spesso, raffinandosi, nel cosiddetto «principio di realtà». La tendenza alla stabilità, chiamata anche «principio di costanza» è un attributo fondamentale della psiche. Quest'ultima è forse la più ipotetica delle tre, e Dorer ha giustamente suggerito che essa deriva dall'insegnamento buddhista, il quale aveva notoriamente influenzato Fech-ner in modo considerevole.14 Da queste tre idee cominciarono a germogliarne nella mente di Freud altre due, che costituirono la teoria della psiche nella sua forma definitiva.

La tendenza alla ripetizione è il concetto che più lo tiene occupato, anche perché gli altri due gli erano stati familiari per anni. Egli vede chiaramente che questa tendenza è un tipico carattere della vita istintuale, che è quindi di natura essenzialmente conservativa. È vero che gli istinti umani sono dotati di straordinaria plasticità, ma quanto più si scende nella scala animale, tanto più stereotipato appare il comportamento istintivo : è noto che in certe creature esso può essere così privo di discernimento da minacciare addirittura l'esistenza della specie, quando si trova di fronte a una modificazione dell'ambiente. Eccoci dunque una volta di più in campo biologico. L'immaginazione di Freud comincia però a dare alla ripetizione coatta un significato più trascendente. Ci si potrà meravigliare nel notare fino a che punto egli fu influenzato, a questo proposito, dal ricordo della legge di Fliess della periodicità inevitabile - destinata a spiegare tutti gli eventi dell'esistenza - e dalla dottrina di Nietzsche «dell'eterna ricorrenza dello stesso», frase che viene esplicitamente citata nel libro. Comunque stiano le cose, vi è a questo punto, nel corso del ragionamento freudiano, un passo che non è facile spiegare e che ha dato luogo a molti dubbi.

Esso consiste nell'affermazione dell'identità della tendenza alla ripetizione con il ripristino di uno stato di cose precedente, identità che è lungi dall'essere ovvia. Al contrario, come Lichtenstein ha chiaramente mostrato, non solo le due cose non sono identiche ma nella loro intrinseca natura sono diametralmente opposte. La coazione a ripetere ha per effetto di non cambiare nulla : la stessa cosa continua ad accadere all'infinito. Invece il ripristino di uno stato precedente è un movimento di natura regressiva che modifica lo stato attuale in un altro proprio di un periodo anteriore. Esso implica l'intervento della nozione di tempo mentre, come ha sottolineato Lichtenstein, la coazione a ripetere implica piuttosto la negazione del tempo e di ogni cambiamento, e forse è proprio questo il suo significato.

Sia come sia, Freud arriva alla conclusione che lo scopo fondamentale di ogni istinto è quello di tornare ad uno stato precedente, ciò che si chiama regressione. Come ha dimostrato estesamente Brun, è una conclusione che non trova alcun sostegno in campo biologico.16 Il principale esempio scelto da Freud, quello della ricapitolazione embriologica, è aperto ad interpretazioni completamente divergenti. Quando un embrione umano, nel corso dello sviluppo che compie per diventare una creatura metazoica, presenta rudimenti di branchie, quindi un cuore simile a quello degli anfibi, ed infine una struttura da mammifero, non torna indietro nemmeno per un momento ma continua a progredire. È, sì, influenzato dalla sua teoria passata, ma come guida verso uno sviluppo ulteriore e non come tendenza a tornare al passato.

Freud, però, tutto preso dalla sua concezione che i fini degli istinti tendano continuamente al passato, non vede alcun motivo per fermarsi di fronte a ciò che appare come una conclusione logica. Se gli istinti tendono al passato, perché si dovrebbero fermare prima di ridurre l'organismo vivente ad uno stato pre-vitale, cioè allo stato di materia inorganica? Perciò lo scopo ultimo della vita dev'essere la morte. È cosi ch'è nato il celebre concetto freudiano di istinto di morte. Sembrerebbe a questo punto che vi sia una certa confusione tra telos e finis. Nel lavoro psicoanalitico siamo autorizzati a considerare questi due concetti come genericamente equivalenti, infatti quando troviamo che il comportamento di un paziente ha condotto ad un certo risultato, siamo molto propensi a sospettare che tale comportamento abbia avuto fin dall'inizio, consciamente o inconsciamente, quell'intenzione, e molto spesso troviamo che il nostro sospetto è giustificato. Tuttavia dobbiamo andare molto cauti nell'applicate questo modo di ragionare ai processi non psichici. Per esempio, se gli streptococchi invadono il corpo di un paziente e lo uccidono provocando insieme alla sua la loro stessa morte, non abbiamo motivo di supporre che questa spiacevole conclusione fosse lo scopo originario dell'intero processo, ed ancor meno potremmo attribuire la fatalità ad un invisibile istinto di morte. Orbene, l'istinto di morte di Freud non è per nulla limitato agli scopi psichici, ma è considerato proprio di tutto il mondo vivente e forse anche di quello inorganico (basti pensare al radium!). Con un simile principio cosmico in mente si può ben immaginare quale fu lo sdegno di Freud quando un comunista affermò che l'istinto di morte era soltanto un sottoprodotto del sistema capitalistico!

Freud osserva che mentre la coazione a ripetere era stata la causa principale della postulazione dell'istinto di morte, il principio della stabilità ne rappresentava l'argomento difensivo più valido.

La concezione di un «istinto» ubiquitario di una simile portata esponeva Freud al pericolo di dover accettare una visione monistica della vita, pericolo che aveva scampato di misura nel 1914, quando il concetto di narcisismo aveva paurosamente esteso lo scopo dell'istinto sessuale. Egli considera l'istinto sessuale il più conservativo di tutti, mentre l'istinto di conservazione, che ci si potrebbe aspettare di veder contrapposto all'istinto di morte, ne è in realtà indipendente : la sua sola funzione è quella di assicurare nel miglior modo possibile che l'organismo muoia alla sua propria maniera secondo la sua legge più profonda ed al momento voluto da questa, e non per un qualunque incidente o malattia che possano essere evitati. Perfino il famoso principio del piacere, che aveva svolto un servizio di prim'ordine, è ora ridotto al rango di servo dell'istinto di morte. Stavolta non c'era via di uscita : Freud sembra arrivato alla posizione di Schopenhauer che aveva insegnato che «la morte è la meta della vita». Per inciso, anche Goethe aveva espresso un'idea simile in uno dei suoi dialoghi : «Il momento della morte, che è così opportunamente chiamata dissoluzione, è quello in cui la monade che è al comando congeda tutte le altre monadi subordinate che fin lì sono state sue fedeli dipendenti, perciò io considero il momento di lasciare la vita così come quello in cui vi si entra, come un atto spontaneo di questa monade suprema la cui essenza intrinseca ci è totalmente sconosciuta.» Una volta di più, tuttavia, Freud si seppe districare abilmente, sottolineando che, sebbene gli istinti sessuali siano conservativi ed obbediscano alla ripetizione coatta ed al principio di costanza-nirvana, essi Io fanno in modo del tutto particolare. Essi tendono, è vero, a ripristinare modi di essere precedenti e devono perciò far parte dell'istinto di morte, ma almeno il loro modo di agire ha il merito di dilazionare indefinitamente la meta finale di tale istinto. Si può perfino dire che in- tal modo, attraverso la creazione di nuova vita, essi controbattono lo scopo dell'istinto di morte e perciò possono essere considerati ad esso opposti. Insomma Freud riesce dopo tutto a ristabilire due forze in opposizione all'interno della mente, cioè rispettivamente gli istinti di vita, o Eros, e quelli di morte. Essi sono di pari forza e natura e in eterna lotta, sebbene alla fine la vittoria spetti inevitabilmente ai secondi.

E un po' strano che Freud non abbia mai usato, tranne che in conversazione, il termine Thanatos, divenuto successivamente così comune per definire l'istinto di morte. Da principio impiegò indifferentemente i termini «istinto di morte» e «istinto distruttivo», alternandoli, ma nello scambio di idee che ebbe con Einstein sulla guerra, precisa che il primo è diretto contro l'Io mentre il secondo, che del primo è una derivazione, è diretto all'esterno. Stekel aveva usato il termine Thanatos nel 1909 per designare un desiderio di morte, ma fu Federn ad introdurlo nel significato attuale.

Eccoci ora di fronte a un nuovo problema : questa muta forza, attiva nella mente come in ogni altra cellula del corpo e tendente alla definitiva distruzione dell'individuo vivente, svolge la sua opera in silenzio; vi è qualche modo di scoprire i segni della sua esistenza? Freud pensa di intrav-vedere due di tali segni, o almeno due indizi, che possono derivare dall'ipotetico istinto di morte. È la crudeltà nella vita che ne fornisce la chiave, ed a questo proposito la grande guerra aveva rappresentato un massivo spettacolo di aggressione, brutalità e crudeltà. Non molto tempo prima Freud aveva ammesso l'esistenza di un istinto aggressivo o distruttivo primario che, fondendosi con gli impulsi sessuali, costituisce la ben nota perversione chiamata sadismo. Quando aveva detto questo (nel 1915) egli considerava tale istinto come appartenente agli istinti dell'Io, ma più tardi gli aveva attribuito maggiore importanza, affermandolo indipendente dall'Io e precedente alla formazione di esso. Il masochismo, invece, l'aveva sempre considerato secondario al sadismo, cioè come un impulso sadico che si rivolgesse all'interno dirigendosi contro l'Io. Ora egli inverte l'ordine e ritiene che debba esserci un masochismo primario, una tendenza autolesiva che rappresenti un indizio dell'istinto di morte, e gli impulsi distruttivi e quelli sadici non ne sono più considerati la fonte bensì il risultato. L'idea di Freud è che gli istinti sessuali, o istinti di vita - responsabili del «clamore» di essa - nella loro lotta contro la forza opposta tentino di prolungare un po' la vita deviando la tendenza autodistruttiva all'esterno, verso altre persone, proprio come un capo di Stato può canalizzare gli impulsi ribelli e rivoluzionari verso il mondo esterno aizzandoli alla guerra : ecco il vero motivo per il quale l'Austria aveva provocato la guerra mondiale. La concezione è molto ingegnosa e grazie ad essa Freud concludeva, con sua grande soddisfazione, la sua visione dinamica del funzionamento della psiche.

È chiaro che qui Freud pensa essenzialmente in termini umani e, naturalmente, clinici. Egli non fa allusione agli animali vegetariani, come le pe core e i conigli, che hanno impulsi aggressivi meno evidenti di quelli dell'uomo : quando un agricoltore chiama animali distruttivi i conigli, non intende dire che essi hanno la passione di distruggere i loro nemici.

Sebbene Freud si fosse fin dall'inizio familiarizzato con gli aspetti selvaggi della natura umana e con gli impulsi crudeli e omicidi che le sono propri, sembra che, a parte il fugace accenno del 1915, egli non abbia riflettuto attentamente sul loro significato nosologico, finché postulò un «istinto aggressivo» derivato da un «istinto di morte» autodistruttivo. Gli adleriani hanno affermato che nel far questo Freud adottò la nozione di un istinto aggressivo primario, avanzata da Adler nel 1908, ma tra le due concezioni c'è un abisso : quella di Adler è più sociologica che psicologica, una sorta di lotta per il potere e la supremazia, mentre quella di Freud è non solo biologica,  ma addirittura vicina alla chimica e alla biologia.

In seguito Freud ammise di aver provato un'avversione personale ad accettare l'esistenza indipendente di un istinto aggressivo. Ne Il disagio nella civiltà del 1930, egli confessa : «Non riesco a capire come abbiamo potuto ignorare l'universalità dell'aggressione e della distruzione estranee ai fini erotici, e non dar loro il dovuto significato nella nostra interpretazione della vita.» E più avanti : «Ricordo bene l'atteggiamento di difesa che assunsi quando l'idea di un istinto di distruzione comparve per la prima volta nella letteratura psicoanalitica e quanto tempo mi ci volle per accettarla.»

Un po' in analogia con i processi fisiologici dell'anabolismo e catabolismo, Freud ritiene che il compito di Eros sia essenzialmente quello di unire, come la forza che tiene unite insieme le cellule di un metazoo. Il suo fine supremo è l'unione, mentre quello dell'istinto di morte è la disintegrazione e la separazione. Questi princìpi o istinti andavano ora assumendo un significato trascendente. Gli scritti precedenti di Freud contenevano solo poche allusioni ad Eros, come quelle del 1910 e del 1920 (anche Breuer ne aveva fatta una negli Studi), ma ora ricorre agli studi classici fatti in gioventù per trovare argomenti in favore della sua attuale concezione. Così egli cita quella fantasia di Platone, probabilmente ripresa da fonti indiane, secondo la quale il primo uomo sarebbe stato un androgino, successivamente separatosi in uomo e donna : perciò il desiderio dell'unione dei sessi è in realtà un desiderio di riunione. È interessante che, quasi quarantanni prima, Freud aveva citato questa idea di Platone alla sua fidanzata, per darle un'idea dell'intensità del suo desiderio di unirsi a lei. Se vogliamo seguire fino in fondo il pensiero di Platone e quindi di Freud, dobbiamo concludere che la riunione finale cui esso allude può essere solo quella con la madre, dalla quale si è stati separati all'inizio della vita.

Un'altra citazione classica alla quale Freud ricorre in un successivo lavoro, Analisi terminabile e analisi interminabile, è il passo in cui Empedocle enuncia che i due princìpi fondamentali non solo degli esseri viventi ma di tutto l'Universo sono Amore e Lotta. A parte il fatto che Freud amplia il secondo nel concetto dell'istinto di morte, i due opposti princìpi sono identici a quelli da lui concepiti.

Sebbene all'inizio enunciasse le idee che stiamo considerando come pure ipotesi, divagazioni personali che lo divertivano ma della cui validità non era molto convinto, un paio d'anni dopo, nel suo libro L'Io e l'Es, Freud le accettò in modo completo e la sua convinzione andò aumentando con il passar del tempo. Ricordo che dopo che gli ebbi espresso, sia nei miei scritti che per lettera, il mio scetticismo circa le sue conclusioni, mi scrisse rammaricandosi della mia riluttanza ed augurandosi che le accettassi al più presto : da parte sua non poteva più farne a meno, senza di esse non sarebbe più riuscito a trovare il suo cammino.

Come ho già accennato, tuttavia, le nuove teorie, malgrado il prestigio di Freud, trovarono tra gli analisti un'accoglienza molto disparata. Qualcuno le accettò subito, come Alexander, Eitingon e Ferenczi. Altri, pur desiderando farlo, sentivano il bisogno di ulteriori argomenti, e la direzione più promettente in questo senso sembrava il campo della fisica, che poteva fornire alcune analogie con le ipotesi di Freud. Egli stesso, del resto, ne aveva fornito lo spunto, col suggerire una possibile affinità fra la funzione dell'Eros e l'affinità chimica. Alexander fu il primo a battere questa via. Si mirava a stabilire un rapporto tra il principio di stabilità di Fechner, che Freud aveva identificato al suo principio del nirvana e, in ultima analisi, con l'istinto di morte, da un lato, ed il secondo principio della termodinamica dall'altro. Questa sinistra legge, lo spauracchio di tutti gli ottimisti, può essere espressa solo in termini matematici, esprimendo per esempio una quantità di calore divisa per una temperatura : per la legge dell'entropia, in un sistema autoregolato tale rapporto aumenta con il tempo. Ciò che vale, però, per un ipotetico sistema chiuso, non si verifica mai in natura e meno ancora negli esseri viventi i quali, come ha

dimostrato l'eminente fisico Schròdinger, assumono energia dall'esterno e perciò acquistano un'entropia negativa. La versione volgarizzata di questa legge è tuttavia il concetto che certi processi fisici, essendo irreversibili, devono ridursi senza fallo in termini di calore. L'idea di un universo che si distrugge può quindi far pensare che la tendenza alla morte, implicita nell'istinto di morte, rappresenti solo un aspetto particolare di una legge fisica generale. Bernfeld e Feitelberg si sono lungamente dedicati a questo argomento senza giungere ad una conclusione, mentre Lichtenstein ha accettato in pieno l'identità in questione. Dal punto di vista fisico, però, due autori inglesi, Kapp e Penrose, hanno mosso critiche roventi agli errori contenuti in questi lavori. Secondo tali critiche ogni idea di un rapporto tra entropia ed istinto di morte andrebbe deposta.

Nemmeno i tentativi di trovare argomenti difensivi nel campo della biologia ebbero successo, malgrado che Freud si sforzasse di inquadrare le sue speculazioni filosofiche in una cornice biologica. A questa conclusione porta l'approfondita discussione di Brun, la cui competenza biologica impone rispetto.4' L'idea di un istinto di morte contraddice tutti i princìpi biologici e non trova alcuna osservazione a sua difesa. Recentemente Nacht ha insistito sulla essenziale distinzione tra le condizioni dell'esistenza che - più o meno meccanicamente - conducono a quella modificazione che chiamiamo morte, e la forza attiva che, nel pensiero di Freud, tenderebbe alla morte più o meno deliberatamente.48 Brun non vede nemmeno la ragione di postulare un istinto aggressivo primario, e ritiene che tutte le manifestazioni aggressive siano reazioni secondarie a varie situazioni (fame, opposizione, ecc.).

Per quanto mi risulta, gli analisti che ancora impiegano il termine «istinto di morte», come Melanie Klein, Karl Menninger e Hermann Nunberg, lo fanno in un senso puramente clinico, lontano da quello della teoria originaria di Freud. Tutte le applicazioni cliniche che egli ne fece sono posteriori e non precedenti all'epoca in cui concepì la sua teoria, perciò possediamo le osservazioni puramente psicologiche delle fantasie aggressive e cannibaliche del bambino, cui seguono nel tempo quelle omicide, ma a partire da esse non possiamo desumere nessuna volontà attiva, da parte delle cellule dell'organismo, di condurre a morte l'organismo stesso. L'espressione «desideri di morte», usata per definire i desideri omicidi ed indispensabile nel lavoro analitico, ha apportato molta confusione a causa di una diversa interpretazione della parola «morte». Il fatto che in rarcasi di melancolia questi desideri possano, attraverso complessi meccanismi d'identificazione, determinare il suicidio non è una prova che essi derivino da un desiderio originario di autodistruzione da parte del corpo, anzi l'esperienza clinica parla chiaramente in favore dell'ipotesi opposta.

E' assolutamente essenziale distinguere gli aspetti ipotetici della teoria dell'istinto di morte dalle osservazioni cliniche che sono state secondariamente apportate in appoggio di essa. Edward Bibring ha espresso chiaramente questo concetto nel passo seguente : «Gli istinti di vita e di morte non sono psicologicamente percepibili come tali : sono istinti biologici la cui esistenza è richiesta solo dall'ipotesi. Ne consegue che, parlando in senso stretto, la teoria degli istinti primari è un concetto che dovrebbe essere espresso solo in un contesto teorico e non in discussioni di natura clinica o empirica. In queste ultime il concetto di istinti aggressivi e distruttivi è sufficiente a spiegare tutti i fatti che ci stanno davanti.»

La complessità dei pensieri esposti nel libro di Freud rende notevolmente difficile il compito di seguirne il filo, perciò vari analisti, tra i quali il sottoscritto, hanno tentato di esporre questo filone in un linguaggio più semplice. La versione più chiara ed imparziale è quella di Bibring, alla quale rimando il lettore. Le idee di Freud in proposito sono state notevolmente male interpretate, e forse l'esempio più curioso è quello di un filosofo olandese, che di recente ha tentato di esprimere le conclusioni filosofiche di Freud nel modo seguente : «La polarità freudiana può essere ridotta ad un istinto vitale e sopravitale, che promuove lo sviluppo nella vita terrena e, oltre questa, la perfezione nella vita ultraterrena.» M'immagino cosa avrebbe detto Freud di questo modo di riferire la sua visione della vita.

Dal momento che la teoria freudiana dell'istinto di morte trova tante poche conferme obiettive, viene spontaneo considerare la possibilità di contributi soggettivi alla sua formulazione, contributi che devono ovviamente riguardare il tema della morte. È un tema che ha indubbiamente occupato la mente dell'uomo fin dai tempi più remoti. L'uomo primitivo, come ci insegnano gli studi antropologici, si considerava potenzialmente immortale : anche nel caso di malattie interne la morte poteva essere dovuta soltanto all'azione di qualche nemico malvagio, concetto che si è protratto fino alle epoche storiche nelle vesti di figure mitologiche come Atropo, Caronte, Èrebo, ecc., e in seguito come Morte armata di falce. La stessa fede primitiva nell'immortalità naturale fu così preservata dalla credenza che solo un crudele nemico potesse metter fine alla vita, altrimenti questa si sarebbe protratta all'infinito. Si potrebbe pensare che l'ipotetico istinto di morte svolga in fondo la stessa funzione di quelle entità più antropomorfe : l'unica differenza sta nel fatto che nel primo caso il nemico viene considerato interiore.

Ci si può poi chiedere se esso va considerato come dovuto all'introiezione di esseri esterni - ovviamente le immagini dei genitori — oppure se queste siano proiezioni di un nemico interno reale, l'istinto di morte. Il nostro narcisismo rende molto difficile ammettere che i nostri processi vitali sono sottoposti ad una loro limitazione interna, e che la loro forza può durare solo per un certo tempo, variabile entro ampi limiti da una specie animale all'altra. Quando esso si è esaurito, o si è dimostrato inferiore allo sforzo richiestogli, moriamo senza che una qualunque causa debba necessariamente farci fuori. Freud era arrivato proprio a questo problema dell'immortalità potenziale, e l'aveva esaminato a lungo senza riuscire a giungere ad alcuna conclusione. Weismann ha fatto notare che le creature unicellulari sono naturalmente immortali, e che la morte fa il suo ingresso insieme ai metazoi. Qualche lavoro sperimentale che indicava come gli unicellulari, in circostanze favorevoli, potessero apparentemente vivere all'infinito, non escludeva, secondo Freud, la possibilità che un istinto di morte potesse essere ugualmente presente in loro.

Orbene, nella personalità di Freud vi erano parecchi aspetti degni di nota circa il suo atteggiamento verso la morte. Nel mondo reale egli era un uomo eccezionalmente coraggioso che affrontò la sfortuna, la sofferenza ed infine la stessa morte con fermezza incrollabile, ma nella vita fantastica

Ivi erano altri elementi. Per quanto addietro risaliamo nella sua vita lo troviamo sempre propenso ai pensieri sulla morte più di qualunque altro grande, che io sappia, eccetto forse Sir Thomas Browne e Montaigne. Perfino nei primi anni della nostra amicizia egli aveva la strana abitudine di salutarmi con queste strane parole : «Addio, chissà se mi rivedrà più.» Poi ci furono i ripetuti attacchi di quella che definiva Todesangst (paura della morte). Fin dai quarantanni fu preso dal terrore d'invecchiare, e contemporaneamente i pensieri di morte si fecero vieppiù insistenti. Una volta disse che pensava alla morte ogni giorno, ciò che non è molto frequente. D'altra parte nutriva, ancor più strano a dirsi, il desiderio di morire. Dopo lo svenimento di Monaco, nel 1912, la sua prima osservazione nel riprendere i sensi fu : «Quanto deve essere bello morire.» Inorridiva al pensiero di dover vivere a lungo come suo padre o il suo fratellastro, eppure ogni qualvolta la sua vita corse qualche rischio provò gran sollievo nel ritrovarla. Diceva spesso che la sua più grande paura era l'insopportabile pensiero di poter morire prima di sua madre, e lo spiegava dicendo che una simile nuova sarebbe stata per lei terribilmente penosa, ma è probabile che ciò implicasse per lui soprattutto la separazione dalla madre. Quando si verificò la nuova che essa era morta per prima, Freud non si lamentò, ma provò anzi un profondo senso di sollievo al pensiero che ora poteva finalmente morire in pace (e riunirsi a lei?). Più di una volta egli lo attribuì, e senza dubbio a ragione, al perdurare dei suoi desideri di morte dell'infanzia.

(Qualche autore ha suggerito che gli eventi della vita, e soprattutto la morte della figlia, la comparsa del suo cancro e la morte del nipote preferito, potessero essere stati i motivi del rinnovato interesse di Freud per il tema della morte, ma è stato stabilito con certezza che Al di là del principio del piacere fu scritto vari mesi prima del primo di questi eventi, e quattro anni prima degli altri due.)

Così Freud ebbe sempre un duplice atteggiamento di fronte alla morte,

; che si può interpretare come l'alternarsi della paura di un terribile padre

; con il desiderio di riunirsi ad una madre adorata.

Tenendo presente tutto ciò mi sembra lecito concludere che, se vogliamo farci un'opinione circa la validità della teoria freudiana dell'istinto di morte, possiamo a buon diritto considerare, oltre agli argomenti che egli stesso addusse nei suoi scritti, il ruolo di eventuali fonti soggettive.

Super-Io ed Es

Il secondo gruppo di idee che Freud sviluppò in quel periodo, solo due anni dopo quelle che abbiamo appena esaminato, è di natura molto differente. Esse derivano direttamente dall'esperienza clinica, con un minimo di sovrastruttura speculativa, e perciò erano suscettibili di prova mediante una ricerca comparativa. Non erano nemmeno così rivoluzionarie come quelle riguardanti l'istinto di morte, anzi erano state indubbiamente adombrate già in varie occasioni, e le conclusioni alle quali conducevano erano in linea diretta con il resto della dottrina di Freud. Per tutti questi motivi

furono accettate più facilmente dagli altri analisti, ed ora rappresentano la parte essenziale delle ricerche psicoanalitiche nel campo della psicologia dell'Io. Il punto di partenza che Freud stabili con esse ha suscitato, nel trentennio che è trascorso da allora, un gran numero di ricerche che hanno apportato un notevole contributo alle nostre conoscenze sul funzionamento mentale.

Tali idee furono esposte con maggiori particolari in un libro pubblicato nel 1932 sotto il titolo L'Io e l'Es,"4 ma dieci anni più tardi furono rese note e furono anche sviluppate da un capitolo delle Nuove lezioni introduttive alla psicanalisi - Lo strano titolo L'Io e l'Es merita una piccola spiegazione. Per ragioni linguistiche avevamo scelto di tradurre in inglese il tedesco Es con il latino Id, invece che con il pronome inglese it. Es era un termine impersonale che Freud usava per indicare quella parte della mente che era non personale, cioè distinta dall'Io. Nietzsche lo aveva già estesamente usato, e più di recente Groddeck lo aveva reso popolare. In tedesco esso suona naturale anche perché funge da soggetto per i verbi impersonali.

L'Es è il serbatoio delle energie primordiali che, secondo Freud, non sono differenziate, ma derivano dai due istinti primitivi di vita e di morte. In ogni caso esso è di natura essenzialmente istintuale, ed è completamente disorganizzato, differendo così dall'Io che è l'organizzazione per eccellenza. Possiede inoltre tutte le proprietà negative che Freud aveva già descritto come caratteristiche di ciò che egli definiva «sistema primario», come per esempio l'assenza della negazione e della contraddizione,  ecc.

Questa concezione deil'Er era allo stesso tempo più completa e più utile del precedente concetto di inconscio, che in certo qual modo tendeva a rimpiazzare. Era anche più vasta, e le ragioni che "Freud adduceva per giustificare questo allargamento sono molto istruttive. Originariamente il suo concetto di inconscio era sinonimo di ciò che è rimosso, e infatti era attraverso la scoperta della rimozione che Freud era giunto al concetto di inconscio. Dopo un certo tempo, però, Freud si era accorto che l'inconscio conteneva altre cose oltre a ciò che era stato rimosso. A parte l'ipotetica questione dello stato in cui gli impulsi primari dovevano trovarsi prima che le forze della rimozione avessero gravato su di loro, il motivo più convincente per supporre la presenza nell'inconscio di altri contenuti oltre al materiale rimosso, era un'esperienza clinica. Quando un paziente manifesta i segni, facilmente riconoscibili, della resistenza, di solito egli si rende

spesso conto della sua ripugnanza e riluttanza, ma talvolta accade che egli non se ne accorga affatto : ciò significa che la resistenza che sta operando in lui deve essere inconscia. Gli impulsi rimossi tendono di per sé a raggiungere la coscienza per potersi esprimere, perciò una parte delle resistenze devono derivare dall'Io. Bisogna dunque concludere per forza che l'Io non è limitato soltanto a ciò che il soggetto chiama «me stesso», ma si continua al di sotto della soglia della coscienza. L'Io è dunque in parte cosciente e in parte inconscio, e si badi che quest'ultima parte non è soltanto preconscia, ma inconscia nel pieno senso della parola, perché per renderla conscia è necessario molto lavoro.

Questa scoperta di una maggiore profondità dell'Io permetteva a Freud di spiegarne la natura in maniera più completa che in passato. Egli si era abituato a dire semplicemente che il nucleo dell'Io era la massa delle percezioni ricevute dal mondo esterno. Orbene, restò fedele a questa affermazione, ma la ampliò dicendo che l'Io era quella parte dell'Ex che era stata modificata da tali percezioni. Le più importanti di queste percezioni sono quelle, ovviamente impregnate di affettività, che si riferiscono alle persone dell'ambiente, e soprattutto ai genitori. Freud descriveva estesamente in questo lavoro la natura delle impronte lasciate da tali figure, ma aggiungeva che le meno significative possono giovarsi, nell'ulteriore corso della vita, dell'identificazione con altre figure. A volte le differenze fra le varie identificazioni possono essere anche cospicue, ciò che conduce ad una considerevole disarmonia dell'Io. In tale maniera Freud spiegava i casi di cosiddetta personalità multipla.

Con il suo paragone dell'ameba Freud aveva parlato già in passato di un narcisismo primario dell'Io, dal quale la libido può fluire verso il mondo esterno per essere ritirata in un secondo momento. In quest'ultimo caso si parla di narcisismo secondario. Invece ora Freud affermava che anche il narcisismo precoce dell'Io era secondario e determinato in uguale maniera dal processo che eravamo abituati a riscontrare nelle fasi successive della vita. La libido dell'Ex è diretta fin dall'inizio verso oggetti esterni allo scopo di ottenere gratificazione, ma quando questa ricerca fallisce, la libido viene spostata sull'Io. Però in questo passaggio essa non può più disporre di un vero oggetto sessuale, e quindi viene «desessualizzata». Secondo Freud questo era il passo essenziale di quel misterioso ed importante processo che è la sublimazione. Tra l'altro egli osservava che nella misura in cui si è rinunciato alla scopo sessuale, i processi del narcisismo e della sublimazione non seguono più le tendenze dell'Eros, anzi possono essere ad esso opposti, e quindi finire sotto il dominio dell'istinto di morte. Questo complicava ancora di più la sua teoria dell'istinto.

Dieci anni prima Freud aveva sostenuto il concetto di un ideale dell'Io, una istanza psichica che criticava le deficienze del vero Io e lo spingeva ad attenersi strettamente ai princìpi correnti di morale e di estetica - ora egli lo ribattezzava con il nome di super-Io™ e allo stesso tempo ne descriveva i connotati con molta maggior dovizia di particolari. In primo luogo egli avanzava solide ragioni per concludere che, così come per l'Io, una parte rilevante del super-Io è inconscia. Questa parte è di gran lunga più feroce, nelle sue condanne, di tutti i morsi della coscienza, che derivano da un livello più superficiale, ed è connessa ad un profondo senso di colpa, seppure non coincide del tutto con esso. La sua attività può essere favorita dalla sofferenza o dalle punizioni, e questo è alla base del patologico «bisogno di punizione» di molti nevrotici. Freud faceva notare che era stato lo studio del «delirio di osservazione», che è un sintomo psicotico, a fargli riconoscere l'azione di questa censura interna.

Allo stesso tempo Freud correggeva una opinione che aveva precedentemente espresso, cioè che l'esame della realtà fosse una funzione dell'Io ideale : ora invece sosteneva che si trattasse di una funzione dell'Io stesso, il quale effettivamente viene ad esistere proprio attraverso questo stretto contatto con la realtà esterna. Su questo punto, quindi, egli tornava alle idee che aveva espresso quasi trent'anni prima.

L'istanza morale che chiamiamo coscienza è un derivato del super-Io, così come l'Io ideale. Sebbene Freud non lo abbia proposto, sarebbe più comodo riservare il secondo termine per indicare i nostri ideali coscienti in senso positivo, mentre il super-Io, o almeno la parte inconscia di esso, riguarda più la funzione negativa del condannare. Da questo punto di vista sarebbe corretto dire che l'uomo è allo stesso tempo più morale e più immorale (impulsi rimossi!) di quanto egli sappia di essere. Il riconoscimento di questo fatto potrebbe sfatare la cattiva fama di cui l'inconscio ha goduto per tanto tempo. La coscienza stessa, secondo Freud, è funzione della tensione esistente fra l'Io e il super-Io, e la sua sensibilità dà la misura del grado di questa tensione.

A questo punto merita di essere sottolineata l'analogia veramente notevole tra la concezione freudiana del super-Io e il modo con cui Nietzsche descrive l'origine della «cattiva coscienza» : «Tutti gli istinti che non trovano sfogo all'esterno ripiegano verso l'interno (è ciò che io intendo quando alludo alla progressiva "internalizzazione" dell'uomo) : ecco il primo abbozzo di ciò che fu in seguito chiamato l'anima dell'uomo. L'intero mondo interiore entra in crisi quando lo sfogo esteriore dell'uomo viene impedito. Queste terribili barriere, con le quali l'organizzazione sociale ha protetto se stessa contro i vecchi istinti di libertà - e le punizioni appartengono soprattutto a queste difese - hanno fatto sì che tutti gli istinti dell'uomo selvaggio, libero e predatore, si siano ripiegati all'interno, entro l'uomo stesso. L'inimicizia, la crudeltà, il piacere di perseguitare, di tendere agguati, di alterare, di distruggere, e la ritorsione di tutti questi istinti contro i loro stessi proprietari : ecco l'origine della "cattiva coscienza". Rimasto privo di nemici esterni e di ostacoli, e imprigionato come era nella oppressiva ristrettezza e monotonia dell'abitudine, l'uomo, nella sua impazienza, lacerò, perseguitò, dilaniò, atterrì e maltrattò se stesso, diventò come un animale nelle mani del domatore che lo sferza contro le sbarre della sua gabbia. Fu questo essere che, gemendo e languendo per esser stato privato di quella casa ormai deserta, fu spinto a crearsi da sé un'avventura, una camera di tortura, un deserto infido e pericoloso : fu questo pazzo, nostalgico e disperato prigioniero che inventò la "cattiva coscienza". In tal modo però egli introdusse una malattia ben più grave e terribile, dalla quale il genere umano non è ancora guarito : è la malattia che affligge l'uomo e si chiama uomo, è il risultato del violento distacco dal suo passato di animale, il risultato di uno spasmodico tuffo in un nuovo ambiente ed in nuove condizioni di vita, il risultato di una dichiarazione di guerra contro i vecchi istinti, che fino a quel momento erano stati il cardine del suo potere, della sua gioia, della sua temibilità.»63

In questo passo Nietzsche dipinge il processo in termini filogenetici che Freud avrebbe certamente sottoscritto e che del resto adombrò in Totem e tabù. Nell'epoca di cui ci stiamo occupando egli affrontava invece il problema ad un livello ontogenetico più profondo, dimostrando come la comunità della vita sociale obbligata è rappresentata, nella prima infanzia, dall'esempio dei genitori. Egli avrebbe poi ammesso la continuità delle origini - quella ereditaria e quella acquisita - perché la natura del processo è identica in entrambe.

Nell'aprile del 1908 Hitschmann lesse un lavoro sul libro di Nietzsche alla Società viennese, e due serate furono dedicate alla discussione di questo problema.64 È difficile che tale discussione non avesse lasciato un'impronta nella mente di Freud, anche se poi ci sarebbero voluti molti anni per farla germogliare.                                                                                                    4

Ciò che viene definito piuttosto rozzamente senso di colpa inconscio può essere molto grave ed imporre atroci sofferenze. L'Io si difende contro tale sofferenza servendosi a questo scopo della sua arma più potente, la rimozione, e questo è il principale motivo per il quale tanta parte dell'Io è inconscia. Il meccanismo è l'inverso di quello, più noto, per il quale l'Io rimuove gli impulsi proibiti su comando del super-Io: nel primo caso infatti l'Io si ribella contro il suo tirannico mentore. Questa rivolta può andare tanto lontano da determinare un'apparente assenza di coscienza, nel qual caso si arriva al comportamento senza scrupoli. È paradossale che le persone più sensibili alle esortazioni della coscienza, o piuttosto del super-Io inconscio, possono essere proprio le più esposte alla condotta antisociale.

La stessa istanza può determinare anche altri risultati indesiderabili. Per esempio, ci sono pazienti nei quali il lavoro analitico ben condotto ha per unico risultato quello di far peggiorare i loro sintomi : è quello che Freud chiamava una reazione terapeutica negativa. Egli poteva ora render conto di questo imbarazzante stato di cose (che non si poteva spiegare soltanto con gli ostacoli, familiari, del narcisismo o con la paura di castrazione) perché aveva scoperto che questo tipo di pazienti era sempre accasciato da un senso di colpa inconscio eccezionalmente forte e troppo penoso per essere ammesso alla coscienza. Quando tali pazienti soffrono coscientemente per un senso d'inferiorità - il famoso «complesso d'inferiorità» -, secondo Freud vuol dire che il senso di colpa è stato erotizzato, e perciò il complesso in questione può essere considerato come l'aspetto erotico del senso di colpa.

Malgrado i fondamentali contributi di Freud sulle origini del super-Io, il problema si è dimostrato molto più complesso di quanto ci si sarebbe aspettato. Quando io lo ripresi in esame qualche anno dopo, Freud mi scrisse : «Tutti i punti oscuri e le difficoltà che Lei descrive esistono effettivamente, ma essi non vengono risolti nemmeno dai punti di vista che Lei mi espone. Ci vogliono ricerche completamente nuove, bisogna che le impressioni e le esperienze si accumulino, e io so quanto è difficile ottenere tutto ciò. Il Suo saggio è l'oscuro inizio di una faccenda complicata.» Due conclusioni gli sembravano certe. Una era che il super-Io ha con l'Es rapporti più stretti di quel che ne ha l'Io, in quanto origina prevalentemente nel mondo interiore, mentre l'Io origina in quello esteriore. L'altra era che l'identificazione con i genitori, e soprattutto con il padre, ha un ruolo importante nella genesi del super-Io. Questo si rende evidente specialmente quando il complesso d'Edipo è in via di risoluzione, di modo che Freud poteva affermare che il super-Io è l'erede del complesso di Edipo. Egli aveva molto da dire circa queste identificazioni, che non avvenivano tanto con l'Io dei rispettivi genitori quanto con il loro super-Io. Si spiega così l'ereditarietà della tradizione. Nell'esaminare gli atteggiamenti ambivalenti verso i genitori, egli osservava come non si potesse spiegare ogni cosa con i conflitti determinati dalla rivalità, ma bisognasse anche tener presente il problema dell'innata bisessualità.

Questa identificazione, però, non è certo l'unica fonte del super-Io. L'immagine del genitore che viene incorporato al fine dell'identificazione, è di solito molto distorta; il più dolce dei genitori può essere rappresentato da un'immagine feroce. La fantasia del bambino che distorce in tal modo l'immagine del genitore è farina del suo sacco, e viene poi fortemente rafforzata dai suoi impulsi sadici. Infine è anche verosimile che l'ereditarietà giochi un ruolo importante. Freud pensava qui, in conformità alle sue idee lamarckiane, all'influsso ereditario delle esperienze proprie delle generazioni precedenti.